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Una delle tematiche più spesso affrontate nella società contemporanea è quella relativa alla cultura dell’apparire e del performare incessantemente.

In qualunque momento e in qualunque situazione sin dall’infanzia passando per l’adolescenza per poi culminare in un eccesso irrefrenabile nell’età adulta, ci viene chiesto di dimostrare di meritare determinate cose, di mostrare fino a ostentare successi e insuccessi ma soprattutto ci viene chiesto di essere performanti, in qualunque momento connessi, reperibili, pronti.

Nello spasmodico tentativo di rispondere a tutti gli stimoli esterni, a tutte le richieste, a tutte quelle necessità indotte insieme ai desideri imposti creati in realtà togliere appositamente su misura delle nostre ultime ricerche su Web, pensiamo di non poterci mai fermare, di non poterci mai riposare, pena l’esclusione, la perdita del privilegio, del complimento dello sconosciuto, del like, dell’approvazione altrui.

I social hanno di certo amplificato e accelerato questo fenomeno sociale di quasi psicotica ostentazione dell’immagine personale causa di forte stress e ansia per chi si sente costretto, a tutte le età, ad apparire “perfetto” o semplicemente ad apparire continuamente, invalidando la normale e umana possibilità di non sentirsi e di non essere in forma o perfetti. Questo ha portato a legittimare spesso o quantomeno ha incentivato l’uso di sostanze e farmaci con un abbassamento dell’età media di inizio dell’utilizzo. Sfuggire, ricreare, evadere, migliorare velocemente di questo si ha il bisogno.

Succede sempre di più anche nello sport, che dovrebbe essere sinonimo di vita sana, ma che invece risulta pretesto ulteriore per provare metodi volti al miglioramento delle prestazioni atletiche, dunque è quasi normale scontrarsi con casi di uso di sostanze definite in questo contesto come “dopanti”.

Lo sport può diventare competizione tossica, come necessità di vittoria, per dimostrare che la nostra performance è migliore delle altre. Per alcuni diventa solo valvola di sfogo, solo se però serve magari per ostentare un fisico statuario ottenuto attraverso strade semplificate, perché non c’è tempo e i risultati si vogliono ottenere il prima possibile e con il minor sforzo possibile. Ci si ammala della necessità di apparire fisicamente appetibili e ci si presta all’uso di sostanze. Sostanze per accelerare, per soffocare le ansie o per ingrossare il muscolo. Dove non arrivano alimentazione sana e allenamento, arrivano gli aiuti esterni illeciti e immorali a creare un circolo vizioso pericoloso.

Il primo caso di abuso di doping in ambito sportivo risale a Tomas Hicks, un maratoneta statunitense che vinse la medaglia d’oro ai Giochi di St. Louis del 1904 dopo che per due volte, lungo il tragitto, il suo allenatore gli aveva somministrato tramite iniezioni del solfato di stricnina, uno stimolante particolarmente diffuso in quegli anni che oggi, in quantità maggiori, viene usato addirittura come veleno per topi. Nonostante il palese utilizzo di uno stimolante in gara, Hicks non andò incontro ad alcuna squalifica perché nel 1904 non esisteva ancora l’antidoping e non si parlava di sostanze proibite. La prima squalifica e la nascita dei controlli antidoping arrivò con le Olimpiadi di Roma del 1960, durante le quali il ciclista danese Knud Enemark Jensen cadde durante la 100 chilometri a squadre ed entrò in coma. L’autopsia chiarì che il ciclista danese aveva fatto uso di sostanze dopanti. Qualche anno dopo la tragedia, nel 1967, il Comitato olimpico internazionale (Cio) decise di istituire una commissione medica e di iniziare i controlli antidoping nei successivi giochi, quelli invernali ed estivi del 1968.

Oggi, però, si segnala un uso differente delle sostanze dopanti: se agli inizi suscitava scalpore e si trattava dell’eccezione, spesso mortale e da notiziario, adesso siamo in presenza di un fenomeno socialmente normalizzato.

Nello sforzo di ottenere prestazioni sportive sempre migliori, alcuni atleti ricorrono al consumo di sostanze al di fuori dei protocolli legali ed etici. Siamo davanti a una minaccia per l’integrità dello sport e la salute degli sportivi stessi. L’ossessione per l’estetica perfetta diventa una sfida vissuta con la pressione con cui molti adolescenti devono confrontarsi. I modelli di bellezza irraggiungibili proposti dai social, dall’industria dell’intrattenimento, contribuiscono a creare un ideale estetico spesso fuori dalla realtà e fuori portata. La ricerca di un corpo perfetto può portare a comportamenti estremi, inclusi l’uso di sostanze che promettono risultati rapidi ma a un prezzo elevato come evidenziato dal rapporto del Dipartimento di Neuroscienze, Biomedica e Movimento Umano e dell’ISS (istituto superiore di Sanità): dalle complicazioni cardiache agli squilibri ormonali ai disturbi del comportamento alimentare. Numerosi casi di doping si rilevano soprattutto nel bodybuilding, da tempo trasformato in una tendenza finalizzata a plasmare il corpo dei sogni, impiegando scorciatoie che vanno dalla creatina agli steroidi.

Come sottolineato dall’istituto di Psicoterapie, le organizzazioni sportive e le organizzazioni come l’Agenzia Mondiale Antidoping (WADA) lavorano instancabilmente per definire e applicare regole antidoping, ma l’evoluzione delle sostanze e delle pratiche rende la lotta sempre più complessa richiedendo sforzi congiunti delle autorità sportive, della comunità scientifica e degli atleti stessi per preservare l’integrità dello sport e garantire la sicurezza.

Ma quali sostanze?

Le sostanze possono variare dalle stimolanti tradizionali, ai farmaci che influenzano il metabolismo e la crescita muscolare, agli steroidi anabolizzanti, dalle terapie ormonali alla EPO (eritropoietina) fino ad arrivare persino alla cocaina ed anfetamine.

Per affrontare questa complessa realtà, non si può ignorare l’uso di sostanze o demonizzarlo ma educare quantomeno alla riduzione dei rischi associati. Questo implica fornire informazioni accurate, promuovere l’autoconsapevolezza e incoraggiare la ricerca di aiuto quando necessario.

Il benessere non può essere misurato solo in termini di prestazioni o aspetto fisico.

Il concetto di benessere da abbracciare è quello di un benessere globale che includa salute mentale, emozionale e fisica. Ciò richiede una riflessione sulle aspettative irraggiungibili imposte dalla società e la promozione di modelli positivi di autostima e autenticità, genuinità. Educazione, regolamentazione rigorosa e consapevolezza sugli impatti sulla salute sono elementi chiave per garantire che l’etica sportiva e il benessere degli atleti rimangano al centro della competizione. Solo così lo sport potrà continuare a ispirare e unire le persone in un ambiente di crescita individuale e rispetto reciproco.

Articolo curato da Isabella Bottalico, servizio civile universale

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